Nel libro Vitam instituere. Genealogia dell’istituzione Roberto Esposito ci fa entrare, secondo una prospettiva filosofica, nel vivo di quella pulsazione inconscia che anima tanto i processi di cura quanto le dinamiche gruppali del lavoro in istituzione.
La forclusione del Nome del Padre è il meccanismo psicopatologico che spiega il mancato accesso del soggetto psicotico a una significazione condivisa. Nell'insegnamento di Lacan la forclusione del Nome del Padre indica un'alterazione del rapporto tra il soggetto e il linguaggio.
Nel disturbo borderline di personalità il soggetto si trova sospeso tra l'incapacità a dare significato alle intenzioni dell'Altro e l'impossibilità a mettersi in gioco autenticamente in un progetto esistentivo. Il significato dell'esperienza borderline può essere rintracciato nella sospensione delle capacità esplorative del soggetto.
Come ci insegnano Di Petta e Tittarelli, la zona di scambio che ci permette di comprendere il passaggio dall’esperienza tossicomanica all’esperienza psicotica è costituita dall’esperienza dello stato crepuscolare della coscienza.
La prospettiva terapeutica che viene proposta da Di Petta e Tittarelli può essere sintetizzata da una citazione: “la vita si accosta solo con la vita” (Le psicosi sintetiche, 2016, p. 35).
Un’altra annotazione sul contributo della psicopatologia fenomenologica italiana alle psicosi indotte da sostanze riguarda la metodologia della ricerca che è stata seguita per isolare e trasmettere le caratteristiche essenziali delle psicosi sintetiche.
Nel loro percorso clinico e di ricerca Gilberto Di Petta e Danilo Tittarelli hanno saputo trovare spunto e sostegno nei lavori di alcuni dei più originali esponenti della psicopatologia fenomenologica italiana. Per tale ragione hanno scelto di dischiudere le porte di un mondo culturale e clinico che attraversa la storia del Novecento.
Nella mia pratica professionale individuo la necessità crescente di un sapere che sappia farsi carne, che sappia diventare rilevante nell’operatività clinica senza perdere tuttavia spessore teorico e rigore scientifico. Il filo conduttore è costituito dalla necessità di garantire “a ciascuno la sua relazione”. Questa formula è valida sia per i terapeuti che per i pazienti.
Perché si scrive? La domanda così formulata mette subito in risalto la questione del soggetto coinvolto nella scrittura. Se facciamo attenzione alla particella si del “si scrive” siamo condotti di fronte a un secondo interrogativo racchiuso nel primo: chi o cosa si scrive?
Da punto di vista clinico il piano dell’agire sembra discostarsi radicalmente dal piano del dire, che invece viene privilegiato da tutti gli approcci terapeutici che puntano sulla dimensione trasformativa della parola.
Esistono delle persone cattive che godono nel fare il male agli altri.
Le persone cattive sono persone per cui non possiamo neanche scomodare una diagnosi psicopatologica di psicosi perché la cattiveria delle persone cattive non rientra nella risposta paranoica alla presunta persecuzione dell’Altro.
Quando scriviamo un caso clinico dobbiamo tenere insieme lo stile soggettivo con cui abitiamo il buco dell’Altro e il modo in cui seguiamo le mappe dell’Altro. Ci sono dei criteri generali che ci permettono di considerare la corrispondenza tra la nostra sequenza argomentativa e alcuni vincoli inerenti l’argomentazione scientifica.
La paranoia è una declinazione della struttura psicotica dove diventa prevalente il rapporto immaginario con gli altri. Nella psicosi paranoica la parte più pulsionale e oscura del soggetto viene proiettata sull'Altro. Il paranoico si percepisce quindi come un soggetto integro e senza crepe interne. Ciò che c'è di pulsionale viene sperimentato soltanto come qualcosa che proviene dall'Altro.
Scrivere la propria autobiografia è un esercizio che si scontra con il muro del linguaggio e l'inafferrabilità del tempo. Questo muro e questa inafferrabilità sono l'impasto esistenziale che dà corpo all'esperienza del desiderio inconscio.
La sintassi che tiene insieme gli elementi di una teoria scientifica si fonda su un momento inaugurale che istituisce una prima sintassi, quella che tiene insieme le parole e le cose.
Il libro Cosa si fa quando si fa filosofia? di Rossella Fabbrichesi è scritto “per tutti e per nessuno” e così anche chi non ha dedicato la propria vita alla vocazione filosofica può rintracciarvi alcuni elementi decisivi per la propria pratica. La filosofia viene infatti presentata come un sapere vivente che trova la propria specificità nel suo farsi, nel suo prendere corpo in una serie di pratiche che trasformano il sapere in opera viva.
Nella mia pratica clinica trovo frequentemente la necessità di un trattamento preliminare dei sintomi affinché possano diventare messaggeri della verità dell’inconscio. La classica nevrosi freudiana non è molto frequente e quando la si incontra si configura più come un risultato della cura che come un dato di partenza.
La dissociazione e l’estasi mistica sono due esperienze in cui avviene una estraneazione dalla coscienza abituale di sé stessi. In entrambi i casi il soggetto fa esperienza di un distacco dal proprio Io cosciente.
CAMPO ISTITUZIONALE E LAVORO D'ÉQUIPE
Struttura e flessibilità sono due parole chiave che definiscono il campo istituzionale e il lavoro di équipe nei servizi di cura.
Il trauma evidenzia l’impatto che gli avvenimenti della vita possono svolgere nello sviluppo dell’identità e nell’origine dei fenomeni psicopatologici. Il trauma rappresenta l’alterazione e la disarmonia sempre possibile tra il soggetto e il suo mondo (affettivo, relazionale, fisico, ecc.). Quando il soggetto vive l’esperienza del trauma sente di non avere via di scampo: un evento diventa traumatico perché viene azzerata la possibilità per il soggetto di prendere una posizione rispetto all’evento stesso.
Nella psicoanalisi lacaniana la forclusione del Nome del Padre indica il mancato compimento del complesso di Edipo ed mostra l’assenza di un punto di capitone nello scorrimento del piano del significante su quello del significato.
La forclusione del Nome del Padre di cui parla Lacan indica il meccanismo psicopatologico delle psicosi e mostra il mancato compimento del complesso di Edipo.
Cercando di rispondere alla domanda “perché si scrive?” è possibile rintracciare un’analogia tra psicoanalisi e scrittura autobiografica.
Intuitivamente il parallelo tra psicoanalisi e autobiografia verrebbe suggerito dall’importanza data alla storia del soggetto.
Nella prospettiva fenomenologico-dinamica la coscienza può essere definita come una “vulnerabile regia dell’esserci” (G. Stanghellini, M. Rossi Monti, Psicologia del patologico. Una prospettiva fenomenologico-dinamica, p. 316).
Gli attacchi di panico mostrano lo straripamento del Reale e vengono vissuti dal soggetto come un fulmine a ciel sereno che in modo imprevedibile fa emergere la vita fuori da qualsiasi rappresentazione e da qualsiasi limite.
Nella psicopatologia classica il “sentimento di estraneità” (BEfremdung) che un clinico prova di fronte all’“estraneazione” (ENTfremdung) del paziente è stato il criterio con cui definire l’incomprensibilità della psicosi.
La vera soggettivazione non è soltanto la narrazione della propria vita, ma il recupero di un rapporto generativo con quel movimento della vita che ci scrive. “Noi siamo scritti dal silenzio”, ci ricorda Duccio Demetrio.
Senza un lavoro autobiografico il grido della vita sarebbe rimasto relegato alla dimensione del trauma, un trauma senza senso e senza trama.
La pratica psicoanalitica di Nicolò è caratterizzata dal confronto costante con la ricerca scientifica più aggiornata.
Allo stesso tempo dedica una particolare attenzione alla dimensione creativa del soggetto.I suoi ambiti clinici e di ricerca riguardano la cura dei nuovi sintomi (ansia, attacchi di panico e depressione; anoressia, bulimia e obesità; gioco d’azzardo patologico e nuove dipendenze) e in particolare la clinica borderline.