Autobiografia, scrittura e psicoanalisi
La vera soggettivazione non è soltanto la narrazione della propria vita, ma il recupero di un rapporto generativo con quel movimento della vita che ci scrive. “Noi siamo scritti dal silenzio”, ci ricorda Duccio Demetrio.
E andare al momento inaugurale dell’intreccio tra linguaggio ed essere vuol dire ricondurre le proprie parole in quel luogo assoluto, ab-soluto, sciolto da ogni legame, dove le espressioni significanti e i contenuti significati non hanno ancora intessuto un loro abbinamento stabile.
La scrittura e l'imponderabile
La pratica della scrittura portata alle sue estreme conseguenze ci fa incontrare quella condizione perturbante dove ancora la nostra esperienza non è stata annodata ad alcun significato. Lì siamo pura enunciazione che non ha ancora preso forma attraverso nessun enunciato.
È questa una delle ragioni per cui la scrittura può diventare anche una pratica di soggettivazione che conduce ciascuno a rivedere le forme di alienazione sociale a cui si è docilmente consegnato per ripararsi dall’angosciosa sensazione di smarrimento che il silenzio assoluto può farci vivere.
La scommessa e il coraggio del consulente autobiografico consiste nel condurre chi scrive a sostare in un rapporto con sé stessi dove lo scrivere prevale sullo scritto, l’atto della marchiatura sul marchio, l’apertura verso l’avvenire sulla commemorazione di ciò che è stato.
Come ci suggeriscono alcuni versi di Angelo Andreotti riportati da Maria Gaudio in esergo al libro La cura nell'accompagnamento autobiografico: “perché la trama non sia più la stessa / cedi all’insidia dell’imponderabile”.
Possiamo aggiungere un’ultima riflessione sul rapporto tra la scrittura clinica e le altre pratiche di cura che rientrano nell’ambito clinico.
I riferimenti concettuali e metodologici che vengono proposti di capitolo in capitolo nel libro di Maria Gaudio prendono in considerazione non soltanto la matrice filosofico-letteraria del sapere ma anche quella tradizione psichiatrica e psicoanalitica che dedica particolare attenzione alla dimensione intersoggettiva della cura. In tutto il testo l’autrice è sempre molto attenta a segnalare i confini del lavoro del consulente autobiografico per evitare cattive interpretazioni o l’insinuazione di qualche appropriazione indebita da parte di psichiatri, psicologi, psicoterapeuti o psicoanalisti.
Le parole e le argomentazioni di Maria Gaudio sono ben chiare nel definire la scrittura clinica rispetto agli altri ambiti professionali, però credo che possiamo andare oltre la preoccupazione di evitare sovrapposizioni che potrebbero alimentare fantasmi di intrusione.
Se leggiamo le riflessioni di Maria Gaudio potremo comprendere quanto sia improprio pensare alla scrittura clinica come all’invasione di un campo riservato ad alcuni specialisti. Il rischio speculare a questo approccio è concepire la scrittura come uno dei tanti dispositivi tecnici con cui intervenire in quelle forme di cura che presuppongono una formazione specialistica in campo medico o psicologico. In entrambi i casi non stiamo mettendo a fuoco la portata etica ed epistemologica del libro perché in queste pagine abbiamo l’occasione per riattraversare il fondamento comune a tutte le forme di cura.
La scrittura clinica non è una porzione ritagliata su un campo che possiamo suddividere attraverso criteri di appartenenza disciplinare. La scrittura clinica ha la stessa base relazionale di ogni incontro autentico.
Da questo punto di vista le distinzioni che propone Maria vanno dunque considerate non come la separazione tra campi diversi ma come la differenziazione di livelli di intervento diversi.
Il campo su cui si dipana il gioco relazionale della scrittura clinica è lo stesso campo dell’esperienza psicoanalitica. La scrittura clinica come la psicoanalisi giocano sullo stesso campo, che è il campo del linguaggio o, meglio, il campo in cui l’essere umano viene umanizzato dal linguaggio.
Certamente vanno distinti i livelli di intervento, ma è importante ribadire che tanto la scrittura clinica quanto la psicoanalisi sono permeate dal dispositivo del linguaggio. Forse la distinzione è sul modo in cui viene messo a lavoro il dispositivo del linguaggio, che comunque in entrambi i casi va a toccare il soggetto dell’inconscio.
In alcuni passaggi Maria Gaudio sottolinea che la scrittura clinica “non si rivolge all’Io dei nostri narratori, non indaga dinamiche inconsce, non fornisce letture intrapsichiche”, allo stesso tempo però l’autrice ci consente di toccare con mano quanto l’accompagnamento autobiografico sia un modo per mettere al lavoro l’inconscio attraverso la scrittura.
Quando Maria dice che tra il narratore e il consulente c’è un Terzo che è lo scrivere ci sta dicendo che sarà la scrittura a far presente quella dimensione terza che è l’inconscio.
L'inconscio è quella dimensione che segna una distanza interna tra sé e sé e una distanza relazionale tra il soggetto e l’Altro.
Eppure è proprio questa distanza che permette di ritrovarsi come soggetti mossi da una vocazione e come soggetti aperti alla relazione. È nella distanza mantenuta viva dalla scrittura clinica che potrà avvenire l’incontro, sempre nuovo, con sé stessi e con l’Altro.
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