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Il tratto distintivo della posizione melanconica, nella lettura di Recalcati, è la dissociazione tra esistenza e senso.

Psicosi paranoica e relazione con l'Altro

Si è concluso da poco il ciclo di seminari del Dipartimento Clinico dell’IRPA. Nel 2025 gli incontri sono stati dedicati al tema de “I grandi paranoici”.

L’argomento è stato sviluppato dagli interventi di Luis Izcovich (Da Aimée a  Schreber: delirio ed atto), di Simona Bonifati [Le inseparabili sorelle Papin. Passaggio all’atto e deliri a due (o a tre?), tra specchi di coppie e terzo mancante], Maurizio Balsamo (Rousseau. La scrittura della paranoia), di Massimo Recalcati (Note sulla paranoia a partire da Hitler) e Angelo Villa (Camera all’Hotel Lux. Stalin, la rivoluzione e la paranoia).

Tra le diverse direttrici teorico-cliniche che hanno orientato i vari interventi, possiamo scegliere come filo conduttore il rapporto tra il soggetto paranoico e l’Altro. I casi che di volta in volta sono stati discussi hanno illustrato bene la specificità dell’impasse relazionale che caratterizza la struttura paranoica. Allo stesso tempo, i diversi interventi hanno discusso sulle possibilità intrinseche della struttura paranoica nel dare una certa impronta al legame sociale.

Possiamo riprendere i nuclei tematici affrontati nei vari incontri del Dipartimento IRPA ponendoci alcune domande chiave.

Indice

 

Come si manifesta la stabilizzazione nella psicosi secondo i casi di Schreber e Aiméé?

La stabilizzazione nella psicosi, secondo l’analisi di Luis Izcovich dei casi di Schreber e Aimée, si manifesta come un processo psicopatologico che risponde alla mancanza strutturale prodotta dalla forclusione del Nome-del-Padre. Bisogna considerare che non esiste una sola forma di stabilizzazione, ma modalità diverse, ciascuna con un proprio grado di rigore, secondo una logica che Lacan aveva già individuato nella formula: “la natura della cura ci mostra la natura della malattia”.

Lacan afferma, a proposito della psicosi, che essa è un “tentativo di rigore”.

Questa definizione è particolarmente evidente nel caso Aimée in cui l’elaborazione delirante non si configura come una semplice deriva immaginaria, ma rappresenta un sistema costruito per evitare il passaggio all’atto. Il delirio, in quanto costruzione, assume una funzione protettiva: ha un valore di stabilizzazione. Dopo il passaggio all’atto (l’aggressione all’attrice), il delirio di Aimée scompare. Questo permette a Lacan di parlare di “atto” vero e proprio, e non semplicemente di “passaggio all’atto”, perché produce un cambiamento nella posizione soggettiva.

In questa prospettiva il delirio va considerato su tre registri dell’esperienza: Immaginario (attraverso la metonimia e l’elaborazione narrativa), Simbolico (nella sua articolazione significante) e Reale (in quanto risposta soggettiva a un’esperienza enigmatica non simbolizzabile). Esso rappresenta il tentativo, nel soggetto psicotico, di articolare un S2 (significante 2) a un S1 enigmatico, di colmare un vuoto nel campo dei significanti, nel tentativo di dare senso a ciò che sfugge alla simbolizzazione.

Il caso Schreber è l’esempio privilegiato di una stabilizzazione psicotica attraverso una costruzione delirante altamente sistematizzata. Il soggetto è confrontato a un’esperienza insopportabile – il divenire-donna – alla quale risponde con l’elaborazione di un delirio strutturato in cui Dio compensa la funzione del Nome-del-Padre forcluso. Dio, nella logica di Schreber, è un Altro che garantisce l’ordine Simbolico: egli diventa l’elemento che, attraverso la sua richiesta di godimento, autorizza il soggetto a godere.

Questa costruzione è una vera e propria “metafora delirante”, che permette al soggetto di stabilizzare la propria posizione rispetto all’Altro e al godimento.

Nella psicosi, il godimento non è rifiutato, ma può essere assunto solo se autorizzato dall’Altro.

Nel caso Schreber, ciò è evidente nel fatto che il soggetto accetta il godimento femminile, ma solo perché richiesto da Dio. Tale elaborazione porta anche all’introduzione di una temporalità futura: la beatitudine, il nome schreberiano del godimento femminile, è collocata in un tempo a venire, posticipata, e in questo rispecchia la funzione strutturante del Nome-del-Padre nella nevrosi, che rimanda il godimento a “un altro tempo”.

La posizione paranoica si definisce, per Lacan, come “identificazione del godimento nel luogo dell’Altro”.

Schreber non gode seguendo il proprio desiderio, ma perché l’Altro – Dio – lo impone. È l’Altro che desidera il suo godimento, lo esige. Questo garantisce al soggetto una certa stabilità, sebbene delirante.

Aimée, a differenza di Schreber, non sviluppa un sistema delirante articolato. Tuttavia, anche nel suo caso è possibile cogliere un certo rigore, benché meno sistematizzato. Il delirio appare come un tentativo di evitare un’azione impulsiva, il passaggio all’atto. Il gesto aggressivo verso l’attrice, che può apparire come un passaggio all’atto, è per Lacan un “atto” nel senso pieno, perché produce una trasformazione soggettiva. Dopo l’atto, il delirio svanisce. L’atto realizza ciò che le allucinazioni annunciavano, rendendo possibile una separazione soggettiva.

Il delirio di Aimée, pur meno articolato, assolve comunque alla funzione di stabilizzare il soggetto fino all’atto. In entrambi i casi, Lacan sottolinea come il delirio sia parte della stessa struttura della psicosi, non un elemento esterno: “il fenomeno elementare sta al delirio come la foglia alla pianta”.

È essenziale distinguere tra “passaggio all’atto” e “atto”.

Il passaggio all’atto è un’uscita dal campo simbolico, un’espulsione soggettiva, spesso vissuta come irruzione traumatica. L’atto, invece, implica una decisione soggettiva, una trasformazione che lascia il soggetto diverso da com’era prima. Nel caso Aimée, il gesto aggressivo non è una pura scarica, ma un atto che condensa la deriva delirante in un punto, permettendo una separazione dal godimento e dal comando dell’Altro.

Nel caso Schreber, il delirio stesso può essere considerato come un atto che costruisce un nuovo ordine simbolico. Non si ha un passaggio all’atto violento, ma una riorganizzazione complessa che stabilizza la posizione del soggetto.

Entrambi i casi mostrano che la stabilizzazione nella psicosi può realizzarsi attraverso supplenze: costruzioni soggettive che vengono al posto del Nome-del-Padre forcluso. Per Schreber, la funzione paterna è sostituita da Dio, che diventa il punto fermo della struttura. Aimée non elabora un Altro stabile, ma l’atto le permette una nuova posizione rispetto al godimento.

Lacan parlerà anche di “ferocia psicotica” (ispirandosi a Wittgenstein) per indicare il rapporto diretto con una verità assoluta che esclude la soggettività dell’enunciazione. Quando il soggetto cerca la verità senza situarsi rispetto a essa, questo è per Lacan un segnale clinico della psicosi.

Come sottolinea Izcovich, la stabilizzazione nella psicosi non consiste nell’assenza di follia, ma in un suo trattamento soggettivo. È possibile solo attraverso una costruzione: o delirante (come in Schreber), o tramite un atto soggettivo (come in Aimée). Ciò che conta non è il ritorno alla “normalità”, ma la possibilità di articolare una risposta al buco simbolico che la psicosi comporta.

Quali sono le congiunture del passaggio all'atto omicida delle sorelle Papin? Quale diagnosi di personalità si può ipotizzare per queste donne?

Nel caso delle sorelle Papin il passaggio all’atto si articola in una sequenza di eventi e tensioni relazionali che vanno ben oltre il presunto “banale disguido domestico” (un ferro da stiro guasto).

Nel suo intervento Simona Bonifati riprende la concettualizzazione lacaniana secondo cui il passaggio all’atto non è un semplice accesso pulsionale, ma una risposta a una congiuntura soggettiva in cui viene meno la funzione del Simbolico e irrompe il Reale.

Le condizioni principali che possiamo considerare come i presupposti del passaggio all’atto sono:

La struttura chiusa del loro legame: Cristine e Léa erano inseparabili, unite da una tendenza simbiotica così intensa da configurarsi come un “delirio a due”. La loro relazione a due era caratterizzata da una confusione identificatoria che escludeva la mediazione simbolica del Terzo. La figura dominante di Cristine esercitava una forma di influenza paranoica su Léa, che si presentava quasi come un’estensione della sorella maggiore. Questo legame speculare era autoreferenziale e risultava impermeabile all’introduzione di ogni differenza esterna.

La caduta dell’ideale: La famiglia borghese presso cui le sorelle lavoravano, i Lancelin, rappresentava per loro un ancoraggio immaginario all’ordine, alla rispettabilità e alla stabilità. Tuttavia, un’inchiesta per truffa a carico del signor Lancelin aveva incrinato la dimensione ideale che rappresentava una forma di compensazione. La comparsa di un godimento clandestino dietro l’immagine idealizzata ha aperto una frattura che ha fatto emergere la figura persecutoria dell’Altro del godimento.

La rottura del patto con la madre: la madre Clemence aveva mantenuto per anni un controllo assoluto sulle figlie, gestendo anche i loro salari. L’intervento della signora Lancelin – che favorisce l’indipendenza economica delle sorelle – rompe questo patto, suscitando una reazione persecutoria da parte della madre e amplificando nelle figlie il conflitto tra fedeltà e separazione. Cristine e Léa si trovano così strette tra due posizioni relazionali che condizionano fortemente la loro vulnerabilità psicopatologica: da un lato la madre tirannica, dall’altro le padrone fredde e distaccate, ma potenzialmente idealizzate.

L’interruzione della funzione dello Simbolico e l’irruzione del Reale: la scena del crimine, preceduta da un cortocircuito elettrico, è immersa nel buio. Questo buio del Simbolico interrompe la mediazione della funzione del Terzo tra le due “coppie” (padrone e domestiche) e segnala la precipitazione nel legame immaginario. L’aggressione omicida diventa una forma immaginaria di separazione agita nella dimensione del Reale: gli occhi delle vittime sono strappati, come se il buio introducesse l’assenza di mediazione del Terzo e le sorelle Papin si trovassero nella necessità di interrompere lo sguardo di un Altro che a causa del buio si presenta come un Altro persecutorio senza limiti. Il gesto ha una valenza pulsionale e, al contempo, relazionale: si presenta come l’eliminazione dell’eccesso di godimento che minaccia il soggetto psicotico in seguito al collasso del Simbolico e alla precipitazione in una dinamica relazionale di tipo immaginario.

La diagnosi della struttura di personalità delle sorelle Papin è stata da sempre controversa. La psichiatria ufficiale dell’epoca, nonostante segni clinici evidenti, faticava a rinvenire la vulnerabilità strutturale della psicosi nei loro comportamenti precedenti il delitto.

Jacques Lacan, nel suo saggio del 1933 Motivi del delitto paranoico: il delitto delle sorelle Papin, propone una lettura clinica che mette in luce la struttura paranoica.

Per Lacan, le due sorelle non solo presentano una struttura psicotica, ma incarnano un delirio a due con elementi di regressione speculare, tipica del complesso fraterno. In assenza del Nome-del-Padre – cioè del significante che media il rapporto tra soggetto e Altro – le due donne restano invischiate in un rapporto duale senza possibilità di separazione simbolica.

Cristine è la figura centrale, la portatrice del delirio, la cui relazione con Léa assume una forma di dominio e fascinazione. Léa, meno dotata intellettivamente, si appoggia interamente alla sorella, divenendone eco. La dimensione fusionale del loro rapporto è di natura narcisistica e difensiva: attraverso l’altro-simile, ciascuna tenta di mantenere un’identificazione che rimane comunque precaria perché fondata solo sul registro di esperienza dell’Immaginario.

La diagnosi possibile è quindi quella di psicosi paranoica per Cristine, e di posizione mimetica secondaria per Léa, eventualmente strutturata in una forma di folie à deux, delirio condiviso in funzione adesiva. Dopo il delitto, le reazioni delle due sorelle divergono: Cristine cade in uno stato di delirio mistico, con allucinazioni e comportamenti disorganizzati; Léa invece mostra una tenuta maggiore e sembra beneficiare, paradossalmente, di una separazione tardiva dalla sorella.

Il caso Papin, nella lettura proposta da Simona Bonifati, mostra come il passaggio all’atto omicida sia collegato a una struttura soggettiva dove si intrecciano le congiunture pulsionali, familiari e sociali. La chiave di lettura della psicoanalisi consente di riconoscere il crimine non solo come un fatto empirico, ma come una risposta soggettiva alla mancanza di sostegno della dimensione del Simbolico. In questa prospettiva, la diagnosi psicopatologica non può prescindere dall’ascolto della singolarità, e la responsabilità giuridica deve tenere in considerazione la particolarità della posizione del soggetto. Come ricorda Bonifati, Lacan lo aveva già sottolineato: il crimine, quando si manifesta per mano di un soggetto psicotico, non è segno di eccesso, ma risposta a un difetto radicale – un difetto di iscrizione della funzione del Terzo che apre la possibilità del riconoscimento simbolico dell’alterità, di quell’alterità che è al contempo interna ed esterna al soggetto.

Perché la figura di Rousseau può essere utilizzata per intendere la struttura della paranoia?

Nel suo intervento Maurizio Balsamo ha interrogato non solo la “paranoia di Rousseau”, ma anche ciò che Rousseau rivela della paranoia come struttura psichica. Non si tratta, infatti, di applicare una diagnosi alla sua figura storica, ma di cogliere, attraverso Rousseau, qualcosa della verità soggettiva e intersoggettiva implicata nella posizione paranoica.

Il pensiero di Rousseau è attraversato da un’insistente ricerca di autenticità. Ma questa autenticità, per essere affermata, deve passare attraverso lo sguardo dell’Altro. È proprio in questa dinamica –  la necessità di essere visti e, insieme, il timore di esserlo – che si annida una tensione tipicamente paranoica. L’Altro è fonte di riconoscimento, ma anche di giudizio, fraintendimento, malevolenza. La società moderna, secondo Rousseau, è teatro: ognuno vi sale per essere guardato, e lo sguardo dell’Altro diventa così lo spazio in cui si gioca la verità del soggetto.

Questa centralità dello sguardo è strutturale nella paranoia: lo sguardo è invadente, giudicante, onnipresente. Per il paranoico, il mondo è pieno di segni, indizi, tracce da decifrare, e tutto si rivolge a lui. Balsamo riprende Zupančič che scrive che il soggetto paranoico non si perde nella generalità della manipolazione complottista: il complotto è contro di lui, e proprio per questo gli conferisce un’identità, un ruolo centrale nel mondo. Meglio essere perseguitati che ignorati.

La vita di Rousseau è segnata da eventi traumatici che il soggetto trasforma in nuclei narrativi: la morte della madre, l’ambiguità del padre, l’accusa ingiusta dell’infanzia. Eventi che diventano “scene fondatrici”, intorno a cui si struttura un’intera mitologia personale. Non si tratta solo di “fatti”, ma di nuclei affettivi, colmi di senso e colpa, che Rousseau elabora attraverso la scrittura. Le sue Confessioni non sono solo un’autobiografia: sono un’operazione paranoica di ri-organizzazione del mondo, un tentativo di rispondere all’enigma dell’esistenza tramite un sistema. Rousseau sente di essere frainteso, accusato, perseguitato. La scrittura diventa allora il luogo dove difendersi, ma anche dove organizzare una realtà alternativa coerente, dotata di logica interna.

È il meccanismo che Freud descrive nel caso Schreber: la paranoia è un tentativo di cura, una ricostruzione del mondo che protegge il soggetto dalla frammentazione psichica.

Rousseau oscilla continuamente tra due posizioni: da un lato è innocente, vittima delle persecuzioni altrui; dall’altro si sente colpevole, responsabile della morte della madre, oggetto di un lutto mai risolto. Questo doppio registro – colpa e innocenza – è tipico della struttura paranoica, che cerca costantemente una posizione chiara, un’identità certa, un senso univoco.

Ma entrambe le posizioni conducono a un’impasse: se sono colpevole, ho messo a morte mia madre, ma allora lei non vive più in me. Se sono innocente, mia madre continua a vivere in me come fantasma. In entrambi i casi, il soggetto resta incastrato in una scena originaria mai risolta, impossibilitato a elaborare un lutto, a produrre un’autentica separazione dall’Altro. La paranoia nasce proprio da questo fallimento del lavoro del lutto, da questa impossibilità di separarsi dall’Altro incorporato.

La paranoia non è solo delirio persecutorio: è anche costruzione, sistematizzazione, ordine.

Rousseau produce un immenso lavoro di scrittura — confessioni, dialoghi, lettere — che rappresenta il tentativo costante di dare coerenza al caos del vissuto. Ogni evento trova una causa, ogni persona una motivazione, ogni dettaglio un significato.

In questa operazione, la scrittura funge da dispositivo paranoico: Rousseau costruisce un mondo alternativo dove tutto si tiene, dove ogni accusa ha un colpevole, ogni dolore una spiegazione. L’Altro, però, è sempre ambiguo: è insieme necessario e persecutorio, desiderato e temuto. La paranoia si struttura dunque come una forma di difesa: contro l’assenza, contro la mancanza di senso, contro l’opacità dell’Altro.

Rousseau vive il legame sociale come una fonte ineludibile di sofferenza.

L’Altro non è mai veramente disponibile: è assente, distratto, fraintenditore. Il sociale appare come un’istanza normante e persecutoria, che tradisce continuamente il soggetto. In questa prospettiva, la paranoia non è un disturbo individuale, ma un’esperienza soggettiva del legame con l’altro, che viene vissuto come intrusivo, malintenzionato, ostile.

Eppure, Rousseau non smette mai di cercare l’altro. Anzi, il suo intero progetto filosofico è fondato sull’idea che un legame autentico sia possibile, a patto che si rimuova l’ipocrisia, l’artificio, la finzione. È l’utopia della trasparenza: sogno paranoico per eccellenza, perché ignora l’opacità strutturale del desiderio e del linguaggio.

La figura di Rousseau permette di cogliere la struttura della paranoia non come una semplice “follia”, ma come una forma soggettiva complessa, organizzata, tragica, e profondamente umana. In lui vediamo il paranoico come colui che cerca verità nell’assenza di senso, riconoscimento nel fraintendimento, ordine nel trauma. La paranoia, nella sua forma più sofisticata, è una costruzione della realtà che salva il soggetto da un vuoto insostenibile – ma al prezzo di un isolamento radicale e di un’eterna battaglia con l’Altro.

Che rapporto ha la paranoia con la posizione melanconica?

La figura di Hitler ci consente di osservare il rapporto tra paranoia e melanconia. L’ipotesi centrale che viene avanzata da Massimo Recalcati è che la paranoia non sia una psicosi tra le altre, ma una modalità – forse la più efficace – di trattamento del nucleo melanconico che è al cuore di ogni psicosi.

La melanconia, infatti, non è concettualizzata semplicemente come una declinazione della struttura psicotica, ma come il fondamento stesso delle psicosi: è la “psicosi delle psicosi”, la radice comune che può assumere diverse forme cliniche, tra cui appunto quella paranoica.

Il tratto distintivo della posizione melanconica, nella lettura di Recalcati, non è l’autoaccusa o il senso di colpa, che pur possono caratterizzare alcuni soggetti melanconici, ma una dimensione più radicale: la dissociazione tra esistenza e senso.

Il melanconico vive un’esistenza che appare svuotata, priva di significato, non abitata dal “sentimento della vita”.

È questa la questione clinica più essenziale: non la colpa, ma il vissuto di inermità derivante dalla percezione che la vita stessa sia senza senso e valore. Tale condizione si manifesta come una desertificazione della dimensione emotiva e affettiva, come un soggetto che si percepisce come un “cratere spento” — immagine evocata da autori come André Green.

A partire da questa diagnosi di fondo, la paranoia si configura come una possibile risposta soggettiva al vuoto melanconico. Laddove la melanconia lascia il soggetto nella passività del senso perduto, la paranoia mobilita un delirio organizzato che assegna al soggetto una funzione, un senso, una missione. Il paranoico, dunque, reagisce alla desertificazione melanconica attraverso la produzione di un ordine, di una coerenza delirante in cui egli è perseguitato, scelto, investito di un compito. È il passaggio da un’esistenza spenta alla megalomania: dal ghiaccio melanconico al fuoco paranoico. In questo senso, la paranoia “cura” la melanconia, nel senso paradossale in cui ogni delirio è anche un tentativo di compensazione del buco lasciato dalla forclusione.

Il caso di Hitler, che Recalcati ha discusso nel suo intervento, illustra bene questa eventualità: nella sua giovinezza egli appare come un soggetto alla deriva, fallito, marginale, che attraversa momenti di sradicamento profondo. L’impossibilità di accedere a un riconoscimento simbolico del proprio desiderio – la bocciatura all’Accademia, la morte precoce dei genitori, il mancato radicamento sociale – fa emergere quel difetto nella trasmissione del sentimento della vita che caratterizza la melanconia. La paranoia hitleriana si scatena in un momento preciso: quando, ferito e cieco, ascolta la notizia della sconfitta della Germania alla fine della Prima Guerra Mondiale. È lì che, secondo il racconto del Mein Kampf, Hitler sente una voce che lo insulta (“miserabile smidollato”) e gli assegna una missione: vendicare la nazione umiliata. Questo passaggio è paradigmatico: l’ingiuria e il mandato formano il binomio attraverso cui la paranoia si struttura come risposta al collasso melanconico.

Il legame sociale è sufficiente a garantire l'esclusione dalla patologia?

Il legame sociale non costituisce una garanzia di “normalità” psichica, anzi possiamo mettere fortemente in discussione questa ipotesi, sottolineando che il legame sociale, lungi dall’escludere la patologia, possa tracciarne le direttrici di sviluppo e possa configurarsi perfino come la matrice che ne condiziona l’insorgenza.

In particolare, possiamo osservare la vicinanza, spesso trascurata, tra la cosiddetta “normalità” e la paranoia. Già alla fine dell’Ottocento alcuni clinici come Kraepelin segnalavano la difficoltà nel tracciare una linea netta tra il soggetto paranoico e quello ritenuto normale. Tale continuità si manifesta in modo particolarmente evidente nel campo della politica, ma anche in qualunque organizzazione della vita collettiva fondata su rapporti di potere. In questo ambito, la paranoia non è un’eccezione patologica ma un tratto strutturale, un linguaggio che dà forma al legame.

Il potere, nella misura in cui si assolutizza, mobilita un discorso paranoico, fatto di controllo, sospetto, esclusione, eliminazione del dubbio e certezza assoluta.

Come ha sottolineato Angelo Villa nel suo intervento, la logica del nemico, teorizzata da Schmitt, è l’espressione simbolica più compiuta di questa dinamica: nella costruzione paranoica dell’amico, il nemico non può più essere messo in questione, è designato come tale con assoluta convinzione.

La paranoia diventa così l’elemento che tiene insieme l’inconscio e la politica. In questa prospettiva, non è un accidente clinico da emarginare, ma una struttura fondamentale del discorso sociale. Paradossalmente, proprio la sua dimensione patologica le consente di essere altamente produttiva: la paranoia genera legami, organizza appartenenze, mobilita affetti collettivi, costruisce istituzioni.

Come ha messo in luce Angelo Villa, un caso esemplare di questo legame tra patologia e potere è rappresentato dalla figura di Stalin. Stalin non corrisponde per niente alla figura del paziente psichiatrico che a causa dei suoi deliri finisce per isolarsi e cronicizzarsi in una posizione ai margini della società, anzi Stalin si presenta come un vincente, un soggetto che si integra totalmente in un legame sociale grazie alla paranoia. Il caso di Stalin mostra come una posizione soggettiva profondamente segnata da tratti paranoici – diffidenza, proiezione persecutoria, rigidità morale, freddezza affettiva, vocazione alla forza – non solo non impedisca il legame sociale, ma ne diventi il centro generatore.

Il potere di Stalin si fonda su una logica paranoica che neutralizza il dubbio e l’alterità: “nessun uomo, nessun problema”, dice una delle sue frasi più famose. La liquidazione dell’altro — fisica, simbolica o ideologica — diventa il principio ordinatore del suo sistema. Come ricorda Angelo Villa citando Simone Weil, la forza è ciò che trasforma l’altro in cosa. Ed è proprio questa forza a costituire il nucleo pulsionale del legame paranoico: si tratta di un rapporto che non riconosce l’altro come soggetto, ma lo ingloba, lo riduce, lo cancella.

In questo senso, la paranoia di Stalin si sostiene sulla presenza del legame fino al punto di realizzare una torsione perversa del legame.

Il caso di Stalin pone quindi una questione diagnostica che riguarda il bordo tra la clinica della paranoia e la clinica della perversione: il suo atteggiamento predatorio verso gli altri è l’esito aggressivo di un soggetto psicotico o si configura invece come la realizzazione cinica del godimento perverso di un soggetto psicopatico? È una questione che rimane aperta e che mostra che il legame sociale non esclude la follia, e anzi può rappresentarne la scena privilegiata. Il legame sociale, se costruito su coordinate paranoiche, produce soggetti funzionali a una logica delirante, che si regge sulla cancellazione del desiderio, sull’imposizione dell’ideale, sulla certezza assoluta. La figura del capo, del leader onnipotente, incarna questa dimensione: è l’Io che si congiunge all’Io ideale, senza più alcuna distanza critica. Non è un soggetto diviso, ma compatto, chiuso, autoipnotizzato nella sua pienezza immaginaria.

Il legame può essere distruttivo o generativo, a seconda della sua struttura simbolica.

È in gioco la possibilità, o meno, di articolare il desiderio, di reggere il rapporto con la mancanza, di non rigettare la castrazione. La questione, allora, non è se il legame sociale escluda la patologia, ma quale legame sia in grado di sostenere la soggettività nella sua mancanza d’essere. Un legame fondato sulla paranoia organizza la coesione sociale sulla base della purezza identitaria, dell’odio, dell’espulsione dell’altro.

 

Per qualche spunto in più guarda questo video sul delirio come sasso in bocca del significante.

 

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Per approfondire la diagnosi differenziale tra psicosi e borderline, tra i libri di Nicolò Terminio, si rimanda a Lo sciame borderline. Trauma, disforia e dissociazione, pref. di M. Recalcati, Raffaello Cortina editore, Milano 2024.

 

Psicoterapeuta Torino
Nicolò Terminio, psicoterapeuta e dottore di ricerca, lavora come psicoanalista a Torino.
La pratica psicoanalitica di Nicolò è caratterizzata dal confronto costante con la ricerca scientifica più aggiornata.
Allo stesso tempo dedica una particolare attenzione alla dimensione creativa del soggetto.
I suoi ambiti clinici e di ricerca riguardano la cura dei nuovi sintomi (ansia, attacchi di panico e depressione; anoressia, bulimia e obesità; gioco d’azzardo patologico e nuove dipendenze) e in particolare la clinica borderline.

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